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Storie di mammut tra finzione e realtà

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Il mammut di Les Cambarelles, capolavoro dell'arte preistorica.
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Storie di mammut tra finzione e realtà

dal fen-chu alla tomba di Rekhmire
Ritratto di lorenzorossi di Lorenzo Rossi - Mar, 05/09/2017 - 07:50Qui si parla di
Il mammut di Les Cambarelles, capolavoro dell'arte preistorica.
L'animale sotterraneo

Da tempi remotissimi sino all’inizio del 1800, le popolazioni indigene siberiane degli Jakuti, Khanti e Coriachi, tramandavano storie su di una misteriosa creatura chiamata mamantu, che significa “animale sotterraneo”. Tali racconti giunsero anche alle orecchie dei cinesi, per via dei commerci che questi ultimi avevano instaurato con le popolazioni stanziate a nord del loro Paese.

Così alcuni antichi trattati storici e naturalistici della Cina riportavano incredibili descrizioni di un’enorme e grottesca creatura grande quanto una balena, che dimorava le remote distese dell’estremo nord della Siberia. Era conosciuta con una grande varietà di nomi, tutti contraddistinti dal suffisso “chu”, parola che significa “ratto”, ma con la quale sono anche indicati i roditori in senso generale. Lo Shên I King, un testo classico del II secolo, riporta quanto segue:

...il K’i Shu si trova sotto il ghiaccio, nelle profondità del terreno. La sua forma è simile a quella di un ratto. Si nutre di erba e di alberi. Il suo corpo pesa 600 kg e può essere utilizzato come carne essiccata da mangiare...

Altre fonti lo ritenevano invece un’enorme talpa. Si diceva infatti che questo mostro peloso caratterizzato da occhi minuscoli, scavasse gallerie sotterranee, aiutandosi con due enormi incisivi a forma di piccone, credenza all’orgine delle altre denominazioni con le quali era conosciuto: Fen-chu (ratto scavatore) e Yen-chu (ratto nascosto). Inoltre, se accidentalmente questi animali venivano in contatto con la luce del sole (o secondo altre versioni con l’aria esterna), morivano all’istante. Quando ciò accadeva le popolazioni locali raccoglievano i loro enormi denti per inciderli e intagliarli ricavandone utensili e oggetti decorativi.

Dovettero passare molti anni prima che queste leggende apparentemente prive di ogni fondamento trovassero una sorprendente conferma scientifica in un fenomeno di conservazione unico al mondo: i misteriosi ratti giganti infatti non erano altro che carcasse di mammut (Mammuthus primigenius) che il peculiare terreno della Siberia settentrionale (permafrost), caratterizzato da fanghiglia congelata, aveva permesso di preservare con tanto di carne e pelliccia!

I mammut erano stretti parenti degli odierni elefanti che vivevano in Europa, Asia e Nord America sino alla fine dell’ultima Era Glaciale, alti al garrese sino a 3,6 metri per un peso stimato di 4-7 tonnellate, erano caratterizzati da una folta peluria simile a quella del bue muschiato (Ovibos moschatus), adattamento che permise loro di sopravvivere ai rigidi climi del loro habitat. Sia i maschi che le femmine erano dotati di grandi zanne d’avorio (le più grandi sinora rinvenute erano lunghe 4,8 metri per un peso di circa 90 kg ciascuna), ragione per cui la caccia a carcasse congelate di questi animali non mobilitò soltanto il mondo scientifico, ma anche numerosi avventurieri e mercanti desiderosi di incrementare i propri guadagni, cosa pienamente dimostrata dalla storia che fa da sfondo al ritrovamento del primo esemplare quasi completo esposto in un museo...

La bestia di Šumachov

Dopo una faticosa ricerca cominciata nel 1799 lungo le coste del delta del fiume Lena (vedi mappa), il cacciatore e capotribù Osip Šumachov si imbatté in un cadavere perfettamente integro di mammut, al quale tagliò le zanne che in seguito barattò per appena 50 rubli di merci con il mercante Roman Boltun, che decise di annotare il luogo della scoperta del cadavere e di tracciarne uno schizzo che in seguitò inviò a un commerciante di nome Popov, residente a Jakustk (Siberia nord orientale).

Qualche anno più tardi, nel 1806, il botanico scozzese Michael Adams, in viaggio verso la Cina, sentì parlare della “bestia di Šumachov” e durante una sosta a Jakutsk contattò personalmente Popov, il quale mostrò allo scienziato il disegno dell’animale. Nonostante le premesse non proprio incoraggianti, il ritratto ricordava infatti più un cinghiale deforme che non un elefante (vedi fig. 1), l’audace scienziato decise comunque di intraprendere una spedizione sul luogo del ritrovamento e la sua tenacia fu ripagata, anche se purtroppo solo in parte: gli abitanti del luogo avevano infatti utilizzato la carne del mammut per darla in pasto ai loro cani e gli animali spazzini avevano fatto il resto; le ossa dell’animale erano state perfettamente ripulite.

Se Adams fosse arrivato anche solo pochi anni prima, avrebbe potuto mettere le mani sul corpo integro, ma a ogni modo la pelle era rimasta intatta e in prossimità del cadavere furono raccolti circa 16 kg di peli. Mai prima di allora erano stati ufficialmente rinvenuti resti tanto completi di questo pachiderma e “la bestia di Šumachov”, in seguito divenuta “il mammut di Adams”, fu spedita a San Pietroburgo dove rappresentò il fiore all’occhiello della Kunst-Kamera, il gabinetto degli oggetti rari dell’Accademia delle Scienze, per poi essere trasferita nel 1896 presso il Museo Zoologico della città.

Fig. 1 - Il disegno di Boltun raffigurante il mammut di Šumachov.
Esistono ancora?

Oggi nemmeno il più ottimista tra i criptozoologi potrebbe sperare nella sopravvivenza attuale di esemplari di mammut, eppure durante l’Ottocento dello scorso secolo i presunti avvistamenti, specie per quanto concerne i territori dell’Alaska, si registrarono a decine e i testimoni riportavano descrizioni talmente vivide e accurate, che alcuni scienziati cominciarono a chiedersi se questi animali si fossero davvero estinti.

Una possibile spiegazione razionale a questi avvistamenti è in genere fatta risalire al naturalista Charles H. Townsend, che operava presso la commissione per la pesca degli Stati Uniti. Quest’ultimo si trovava a bordo della nave guardacoste Corwin, quando durante una sosta a Capo Principe di Galles, nel territorio di Kotzebue (Alaska), alcuni inuit salirono a bordo per mostrargli ossa e zanne di mammut chiedendogli a quale animale erano appartenute, dato che non ne avevano mai visto un esemplare vivo. Così Townsend disegnò su un foglio di carta l’aspetto della creatura, con tanto di manto peloso, e lo consegnò ai suoi interlocutori, che lo portarono a terra.

Da qui il disegno sarebbe stato ricopiato più e più volte e distribuito dagli inuit lungo il territorio durante le loro peregrinazioni.

Tra folklore e fantarcheologia

Anche se una simile interpretazione è ragionevolmente piuttosto probabile, diversi antropologi culturali hanno discusso sull'esistenza di figure riconducibili a mammut e mastodonti (Mammut americanum),  che sembrano far parte del folklore delle popolazioni del Nordamerica da molto tempo prima della chiacchierata informale tra Townsend e gli inuit. 

Ad esempio sulle pagine di American Anthropologist del 1934, W. D. Strong riportava alcune interessanti conclusioni relative a quelli che definiva come "miti dell'osservazione" e "tradizioni storiche". Alla prima categoria appartenevano le creature del folklore possibilmente nate attraverso l'osservazione di resti fossili di animali estinti (principio su cui si basa la geomitologia), mentre alla seconda appartenevano tutti quei casi in cui i racconti tramandati derivavano da una vera e propria conoscenza diretta dell'animale in vita e poi ingigantiti con il passare delle generazioni. Secondo l'antropologo entrambe le categorie entravano in gioco per spiegare certe leggende del Nordamerica diffuse tra gli Algonchini canadesi e i Maskapi del Labrador del nord.

Tra i primi si parla di un enorme alce che possedeva un lungo braccio "tra le spalle", che poteva essere utilizzato per afferrare oggetti, mentre per i secondi, un tempo esisteva una gigantesca creatura ora estinta chiamata katcheetohuskw, che aveva orecchie e denti molto grandi e un naso lunghissimo con il quale colpiva le persone, le impronte che imprimeva nel terreno erano molto profonde e rotonde. I Panawahpskek del Maine raccontano invece di mostri dai lunghi denti che dormivano di notte appoggiandosi agli alberi.

Strong era convinto che queste storie potessero essere riferite a tradizioni orali su mammut e mastodonti osservati in vita, in quanto il dettaglio del "lungo naso", da lui accostato alla proboscide di questi animali, non sarebbe potuto emergere dall'osservazione diretta dei loro fossili.

Nel numero seguente della rivista questa tesi fu però messa in dubbio da Frank Speck dell'Università di Filadelfia, secondo cui la traduzione più accurata dei vari nomi con cui i nativi indicavano la misteriosa creatura era "orso dalle gambe rigide". Proseguiva affermando che i nativi la consideravano e descrivevano come un orso, seppure dotato di caratteristiche peculiari. Tali racconti erano inoltre considerati come miti dai nativi stessi.

L'ultimo contributo in merito fu pubblicato nel 1937 da F. T. Siebert Jr., secondo il quale i lavori precedenti non spiegavano questi racconti in termini di credenze. Riportava quindi, che a seguito di un lavoro sul campo, era riuscito a risalire alla loro genesi. Ad esempio tra i Penobscot, questi esseri erano chiamati "Grande Orso Glabro" ed erano il risultato della trasformazione di un orso nero che avesse ucciso e divorato un essere umano.  

È comunque interessante notare come prove archeologiche dell'incontro tra popolazioni americane e antichi proboscidati estinti siano in seguito emerse realmente.  Infatti nel mese di giugno del 2011, Barbara Purdy dell’Università della Florida, diede notizia del primo ritrovamento in suolo americano di una raffigurazione preistorica genuina di mammut, o mastodonte. Si trattava di una sottile incisione effettuata su di un osso rinvenuto dal cacciatore di fossili James Kennedy presso Vero Beach (Florida) e da lui scoperta soltanto qualche anno più tardi, in seguito a un’operazione di pulitura del suddetto reperto. Conscio dell’importanza di un simile ritrovamento, informò immediatamente gli esperti dell’Università della Florida, che dopo una serie di esami e analisi confermarono l’autenticità dell’incisione.

Fig. 2 - Particolare dell’incisione del “mammut della Florida”.

Infatti sebbene simili reperti siano piuttosto comuni in Europa e Asia occidentale, tutti i precedenti ritrovamenti di questo tipo su suolo americano prima di allora si erano rivelati dei falsi realizzati in epoca moderna, come nel caso del famoso “ciondolo di Holly Oak”, un frammento di conchiglia "scoperto" in Delaware nel 1889 da Hilborne T. Cresson, recante due forellini sulla cima e l’incisione di un mammut.

Gli stegodonti del Nepal

Informazioni apparentemente più interessanti sulla possibile sopravvivenza di un’antica specie di proboscidato, dato che furono accompagnate da fotografie molto nitide e di indubbia genuinità, giunsero nel 1992 da tutt’altra parte del mondo...

Nei mesi di febbraio e marzo di quell’anno il famoso esploratore John Blashford, fondatore della Scientific Exploration Society, guidò una spedizione nella poco visitata valle di Bardia, Nepal occidentale, alla ricerca di presunti elefanti giganti descritti dalla popolazione locale. Due di queste bestie, maschi adulti la cui altezza fu stimata a circa 3,4 metri al garrese (maggiore del più grande esemplare di elefante asiatico sino ad allora conosciuto), furono fotografate. Le sorprese erano però destinate a non concludersi qui, infatti questi elefanti possedevano alcune caratteristiche apparentemente insolite come una conformazione a cupola del cranio e una convessità del ponte nasale.

Questi elementi indussero il paleontologo canadese Clive Coy del Royal Tyrrel Museum of Paleontology, a formulare un’ardita ipotesi: la morfologia di questi elefanti non era tipica del comune elefante asiatico, ma compatibile con quella degli antichi stegodonti, gli antenati comuni degli attuali elefanti (africani e asiatici) e dei mammut!

Naturalmente non mancarono interpretazioni più parsimoniose, come quella che A. M. Lister formulò nelle pagine del Geographical Magazine.
Secondo l’autore le “bestie di Bardia” (nome con il quale nel frattempo erano diventati noti questi misteriosi elefanti) non somigliavano affatto allo stegodonte, ma possedevano vaghi tratti in comune con l’antica specie di elefante asiatico conosciuta con il nome di Elephas hysudricus, che visse in India sino a circa 2 milioni di anni fa. Lister suggeriva che un fenomeno di bottlenecking (1) poteva spiegare l’emergere di caratteristiche ataviche negli elefanti di Bardia, ipotesi successivamente confermata dai test del DNA: a causa del loro isolamento questi pachidermi possiedono infatti un pool genetico nettamente distinto da quello delle altre popolazioni asiatiche, pur rientrando perfettamente all’interno della specie Elephas maximus.

A ogni modo la loro morfologia non risulta essere poi così singolare, a tal proposito il paleontologo Darren Naish ha pubblicato immagini di due elefanti provenienti dall’Hagenbeck Zoo di Amburgo che presentano le stesse caratteristiche, le quali sono molto ben conosciute anche dai locali, tanto che la particolare conformazione del cranio è da loro chiamata “cupola della saggezza”.

Fig. 3 - Un elefante di Bardia con la curiosa conformazione del cranio a cupola, simile a quella dell’antico Elephas hysudricus (ricostruito nel riquadro in alto a destra).
L'abito non fa il mammut

Ma quello delle “bestie di Bardia” non è l’unico caso in cui ricercatori professionisti si sono lasciati affascinare da ipotesi "esotiche". Infatti nel dicembre del 2000 le televisioni e i giornali tailandesi diedero ampio spazio a una curiosa quanto incredibile notizia: biologi conservazionisti ed esperti di elefanti stavano partendo per una spedizione nelle foreste a nord del Paese alla ricerca di mammut sopravvissuti!

Il tutto risaliva a parecchi anni prima, quando nel 1984 la principessa tailandese Rangsrinopadorn Yukol girò un video sfocato di un branco di 28 elefanti presso il distretto di Omkoi, mentre stava sorvolando la zona a bordo di un elicottero. Sembra che alcuni fotogrammi del filmato che furono divulgati ritraessero elefanti con lunghi peli sulla schiena e attorno alle zanne, ma la spedizione allestita per indagare fu ufficialmente interrotta dal Royal Forestry Department per non meglio specificate “ragioni di sicurezza”.

A cercare difare chiarezza su questo colorito siparietto fu Richard Lair dell’Elephant Conservation Center:

“È semplicemente impossibile che possa trattarsi di una nuova specie. Quando nascono, gli elefanti sono spesso molto pelosi (fig. 4) e alcuni hanno peli più lunghi rispetto ad altri. Da quanto ho potuto vedere nelle immagini ci troviamo di fronte a uno di questi casi: si tratta di giovani elefanti che non hanno ancora perduto completamente il pelo”.
Richard Lair

A suffragio della spiegazione di Lair va ricordato inoltre che il mantenimento prolungato del pelo giovanile è un fenomeno che talvolta si registra nelle zone più settentrionali degli areali di distribuzione degli elefanti.

Fig. 4 - No, non sono un mammut :-)
Il mammut e il faraone

Prima di concludere è necessario ritornare nella Regione Paleartica per cercare di far luce su di un ennesimo mistero ai confini della criptozoologia: dando per appurato che al giorno d’oggi i mammut sono definitivamente scomparsi, è invece possibile che questi animali si siano estinti in epoche più recenti di quanto è ufficialmente accettato?

Nel 1994 le pagine della prestigiosa rivista Nature ospitarono un articolo dell’israeliano Baruch Rosen dallo sconcertante titolo di Mammut nell’antico Egitto?, nel quale l’autore, riferendosi a un dipinto che adorna una parete della tomba del governatore Rekhmire, risalente al 1479 - 1401 a.C., poneva l’attenzione su di un suggestivo particolare: la scena, rappresentante mercanti siriani trasportanti doni e mercanzie, raffigurava, assieme ad altri animali come un orso e una giraffa, anche un elefante peloso dotato di zanne, apparentemente alto meno di un uomo. Rosen si chiedeva quindi se il popolo egizio avesse instaurato rapporti di commercio con le popolazioni della Siberia settentrionale.

Non dobbiamo sorprenderci se la rivista diede spazio a una teoria apparentemente tanto fantasiosa, infatti soltanto un anno prima il medesimo giornale mise al corrente il mondo scientifico di una spettacolare scoperta...

Fig. 5 - Particolare del dipinto della tomba di Rekhmire che mostra un elefante simile a un piccolo mammut.
Sorprese dall'isola di Wrangler

Nel 1989 Sergej Vartanyan, esperto di datazioni con il radiocarbonio, si recò nella remota isola di Wrangel, a 200 km al largo della costa nord-est della Siberia, il cui accesso per anni era stato consentito soltanto al personale militare. Qui raccolse numerose ossa di mammut da sedimenti risalenti al moderno Olocene, notando immediatamente due interessanti particolari: i reperti apparivano molto recenti e appartenevano per la maggior parte a individui di piccole dimensioni, alti al garrese dai 180 ai 250 cm.

Quando tornato al suo laboratorio sottopose le ossa ai test del radiocarbonio, i risultati lo lasciarono senza fiato: quattro zanne e una tibia appartenevano a mammut vissuti tra i 4.740 e i 7.380 anni fa. Molto restio nel rendere nota questa scoperta, sino ad allora infatti i più recenti resti di mammut erano datati a 9.600 anni, nei due anni seguenti decise di recarsi di nuovo sull’isola, dalla quale ritornò con centinaia di kg di ossa.

Anche in questo caso ciò che emerse, oltre a essere corroborato da altri esperti del settore, fu letteralmente sorprendente: le ossa più recenti avevano appena 3.730 anni. Inoltre, come appurato precedentemente, i resti appartenevano a individui di taglia ridotta, cosa che indusse Vartanyan e il suo team a ritenere che potesse trattarsi di una popolazione sulla quale aveva agito il fenomeno noto come nanismo insulare.

L’isola di Wrangel, che ha una superficie di appena 7.865 km2, era unita al continente durante l’Era Glaciale, ma si separò dalla Siberia sul finire di quest’ultima, circa 13.000 anni fa, quando in seguito allo scioglimento dei ghiacci avvenne l’innalzamento del livello dei mari. I mammut rimasti sull’isola avrebbero quindi con il tempo diminuito le proprie dimensioni in concomitanza con il vincolo della scarsità delle risorse disponibili.

All’interno di questo quadro generale, considerando che per quanto possa sembrare incredibile la scienza ha dimostrato che esistevano ancora mammut viventi all’epoca dei Faraoni, l’ipotesi di Rosen precedentemente esposta assumerebbe connotazioni molto meno fantasiose. Ma nonostante questo, ritenere che gli egizi avessero instaurato rapporti commerciali con le popolazioni della Siberia e che i commerci prevedessero anche il trasporto di mammut di Wrangel, rimane un’eventualità ancora tutta da dimostrare.
Chiaramente non sono mancate diverse altre interpretazioni più o meno ragionevoli per spiegare la curiosa anomalia del dipinto, ma nessuna di esse può definirsi conclusiva.

L’esigua taglia dell’animale potrebbe essere spiegata con il fatto che il disegno non è in scala, ma puramente simbolico, o che l’artista abbia voluto risparmiare spazio, ma in un altro particolare dell’affresco appare una giraffa raffigurata con le giuste proporzioni (2). Un’altra possibilità potrebbe tirare in ballo un caso teratologico: abbiamo già appreso che a volte i giovani elefanti possono mantenere una certa quantità di peluria, inoltre gli egizi conoscevano bene sia gli elefanti africani che l’attualmente estinta popolazione mediorientale di elefanti asiatici. Potrebbe essere quindi possibile che un giovane individuo con delle zanne anormalmente sviluppate fosse stato riconosciuto per la sua eccezionalità ed immortalato nel dipinto in qualità di dono prezioso per il faraone? 

Tra le ipotesi “non ortodosse” più affascinanti vi è senz’altro quella del paleontologo Darren Naish, che ha fatto notare come i casi di nanismo insulare con protagonisti dei proboscidati non si sono limitati soltanto all’isola di Wrangel, ma anche alle più vicine (per il popolo egizio) isole del bacino mediterraneo. Tra questi il più interessante è senza dubbio quello degli elefanti di Tilos (Elephas tiliensis), pachidermi pigmei che abitavano nell’omonima isola dell’Egeo sino ad almeno 4.300 anni fa.

Tuttavia, per quanto non inverosimili, tutte le congetture sopra elencate non sono dimostrabili in alcun modo e non possono dare una spiegazione soddisfacente a quella che per il momento è destinata a restare tra le molte bizzarie inspiegate dell’arte antica.

 

L'ultimo mammut

A titolo di curiosità, pur non dando nessun credito al resoconto in questione, ho deciso di concludere questo paragrafo con quello che, secondo i naturalisti più romantici, sarebbe l’unica testimonianza attendibile riguardante mammut sopravvissuti sino in epoca moderna.

Nella sua opera Mammoths del 1946, l’autore M. L. Gallon riporta un aneddoto avvenuto nel 1920 mentre era in carica al consolato francese di Vlodivostok (Russia orientale). Nel mese di marzo di quell’anno, un impiegato della Banca Asiatica Russa gli chiese se poteva presentargli suo fratello, il quale era recentemente ritornato in città dopo quattro anni passati nella Taiga.

Il diplomatico decise di invitarlo a pranzo, durante il quale l’ospite lo mise a conoscenza di un fatto letteralmente incredibile. Nel suo secondo anno di esplorazione della taiga, si era infatti imbattuto nelle impronte di un’enorme creatura, molto più grande di qualunque altro animale conoscesse. Le tracce erano larghe almeno 70 cm e i segni impressi dalle zampe anteriori distavano circa quattro metri da quelle delle zampe posteriori, che erano leggermente più grandi delle prime. La pista conduceva all’interno di una foresta e dopo averle seguite per diversi giorni, notando che ogni tanto l’animale si era fermato in praterie erbose per poi continuare la sua marcia, scoprì che un’altra pista, quasi uguale alla prima, si univa a quest’ultima continuando a marciare verso est.

Un pomeriggio, ormai convinto che non sarebbe mai riuscito ad avvistare i misteriosi animali, ne intravide uno a circa 300 metri di distanza: era un enorme elefante con grandi zanne bianche molto ricurve, dotato di una pelliccia di colore nocciolo scuro provvista di peli molto lunghi sui quarti posteriori e più corti su quelli anteriori. Possedeva grosse zampe e si muoveva lentamente. Prima di allora aveva visto degli elefanti soltanto in fotografie e disegni.

Nonostante da questo bizzarro racconto non fossero esenti particolari sospetti (ad esempio il testimone disse che quando le due piste si unirono, il secondo animale seguiva il primo a circa 20 metri di distanza, particolare assolutamente impossibile da estrapolare), Gallon non esitò a credere nella buona fede del suo ospite, sottolineando che si trattava di un paesano analfabeta che non conosceva i mammut, dato che quando gli pronunciò questa parola non diede il minimo segno di avere compreso cosa intendesse.

Bibliografia

AUGUSTA, J. and BURIAN, Z. (1962), Alla scoperta dei mammuth. Editori Riuniti (Roma).
BYRNE, Peter (1991), Tula Hatti - The last great elephant. Faber and Faber (Boston and London).
GALLON, M. L. (1946), Mammoths. Saint-Hubert (Paris).
MARMET, Marcel (1950), A le Recherche des Traces des Derniers Mammouths. Science et Vie No. 388 (Paris),
ROSEN , Baruch (1994), Mammoths in ancient Egypt? Nature 369, 364.
SIEBERT, F. T. Jr. (1937), Mammoth or "Stiff-Legged-Bear". American Anthropologists 39 721-725 
SPECK, Frank G. (1935), Discussion and correspondence Mammoth or "Stiff-Legged Bear". American Anthropologists 37 159-163.
STONE, Richard (2002), Il mammut. La ressurezione del gigante dei ghiacci. Piemme (Milano).
STRONG, W. D. (1934), North American Indian traditions suggesting a knowledge of the mammoth. American Anthropologist 36 81-88.
STURTEVANT, et al. (1985), The Holly Oak Pendant. Science:242-244.DOI:10.1126/science.227.4684.242
VARTANYAN, S. et al.
(1993), Holocene dwarf mammoths from Wrangel Island in the Siberian Arctic. Nature 362 (6418): 337–349.
(1995). Radiocarbon Dating Evidence for Mammoths on Wrangel Island, Arctic Ocean, until 2000 BC. Radiocarbon 37 (1):1–6.

Note

(1) Fenomeno dovuto alla drastica e brusca riduzione del numero di individui di una specie, che causa impoverimento nella diversità del patrimonio genetico.

(2) Non va tuttavia dimenticato come nell'arte egizia la scala sia sinonimo di importanza. Ad esempio se viene rappresentato un gruppo familiare, il capofamiglia è sempre la figura di maggiori dimensioni. Questo tipo di scala è chiamata "Scala Ieratica". E' concepibile che l'elefante sia stato rappresentato con proporzioni tanto ridotte perché si trattava di un dono secondario (ad esempio proveniente da persone di basso rango) o meno apprezzatto di altri, quali la giraffa.