L'ultimo ruggito
"Molto grande, color ocra scuro, con la criniera lunga e folta che arriva fino a metà schiena e che copre fittamente anche le parti sottostanti...". Con queste parole il naturalista inglese Richard Lydekker descriveva il leone berbero (Panthera leo leo), che con i suoi 3 metri di lunghezza per oltre 220 kg di peso era la più grande tra le sottospecie di leone viventi in epoca moderna.
Conosciuto e ammirato sin dall'antichità, pagò infatti a caro prezzo la sua fama divenuta quasi leggendaria. I romani ne uccisero migliaia di esemplari nei loro giochi circensi, le famiglie reali del Marocco e degli altri paesi dell'Africa del nord erano solite allevarne in cattività un grande numero, l'impero Arabo ne forzò le popolazioni in territori sempre più ristretti e infine i cacciatori europei diedero il colpo di grazia alle ultime popolazioni superstiti prima dell'inizio del XX secolo. Tra il 1901 e il 1910 non si registrarono più avvistamenti in natura e gli zoologi dichiararono la sottospecie estinta negli anni '20 del secolo scorso. Ufficialmente l'ultimo esemplare selvatico conosciuto fu abbattuto nel 1922 da un colono francese in Marocco, ma forse dei residui superstiti sarebbero potuti sopravvivere sino a tempi relativamente recenti lontani da occhi indiscreti...
O perlomeno questa è la tesi avanzata in uno studio pubblicato nell'aprile del 2013 dal biologo conservazionista Simon A. Black e dal suo gruppo di ricerca, che indica il 1965 come il periodo più probabile per la scomparsa in natura di questo felide. L'ipotesi nasce elaborando le segnalazioni di prima mano (per un totale di 149, 14 delle quali avvenute dopo il 1922), sia setacciate in letteratura che raccolte direttamente sul campo intervistando le persone anziane di remote comunità algerine, con i più raffinati modelli statistici utilizzati per calcolare l'estinzione presunta di una specie in base al suo ultimo avvistamento in natura.
Nel caso del leone berbero questo si sarebbe registrato nel 1956 a nord di Sétif (città dell'Algeria nordorientale), quando un gruppo di persone a bordo di un autobus ne osservò un esemplare presso un'area forestata che fu distrutta due anni dopo durante la guerra Franco-Algerina. Nella sua pubblicazione Black sottolinea come spesso le testimonianze dei nativi, restando di norma sconosciute alla scienza, possono purtroppo risultare inutili ai fini della conservazione di specie a rischio e meriterebbero quindi maggiore attenzione. A questo proposito indica come spesso le dichiarazioni sull'estinzione di alcuni grandi felini si siano rivelate inattendibili, prendendo come esempio più lampante quello della tigre del Caspio (Panthera tigris virgata), considerata estinta all'inizio degli anni '70. Data che la successiva scoperta di un commercio locale di pelli di esemplari abbattuti protrattosi sino agli anni '80, ha rimesso però in forte discussione.
Ma sebbene raccolti ed elaborati con scrupolo, i dati presi in considerazione da Black e la sua squadra rimangono comunque esclusivamente testimoniali. C'è però chi è convinto che la storia del leone berbero possa continuare ad essere scritta considerando prove ben più empiriche: nel corso del tempo ne sono stati infatti segnalati svariati presunti esemplari custoditi in cattività.
Ad esempio nel 1996 il veterinario sudafricano Hym Ebedes dichiarò che undici leoni dello zoo di Addis Ababa (Etiopia) sembravano mostrare il fenotipo del leone berbero, mentre alla fine dello stesso anno fu la volta di tre leoni rinvenuti presso un circo abbandonato a Maputo (Mozambico). Successive indagini stabilirono però che si trattava soltanto di ibridi di leoni subsahariani. Anche le dichiarazioni più promettenti, quelle avanzate dallo zoo di Rabat (Marocco), che custodirebbe ben trentacinque leoni berberi diretti discendenti delle collezioni allevate per oltre cento anni dai re e sultani della regione, sembrano non avere prodotto i risultati sperati. I test genetici per dimostrare quanto affermato non sono infatti di facile attuazione, essendo gli unici campioni di confronto affidabili rappresentati eslcusivamente da reperti museali, ossa e pelli tassidermizzate vecchie più di 140 anni, che rendono difficile una completa mappatura genetica.
E' stato comunque possibile estrarre diverse sequenze di DNA mitocondriale che dimostrano come cinque leoni campione provenienti dallo zoo di Rabat non possiedono nessuna "discendenza berbera" da parte di madre. Più interessanti sembrano essere gli studi pubblicati nel 2006 dal biologo molecolare Joachim Burger, secondo i quali il dna mitocondriale di un leone ospitato presso lo zoo di Neuwied (Germania), sembrerebbe escluderne una discendenza subsahariana o asiatica, indicando così che potrebbe trattarsi di un vero leone nordafricano. L'autore non ritiene impossibile che diversi discendenti di questi animali possano essere ancora viventi in stato di cattività, visto che, per via della bellezza della loro criniera, i maschi sarebbero spesso stati fatti incrociare con leonesse di sottospecie diverse.
Ma tra congetture e speranze, purtroppo la prova più recente indicante un leone berbero in vita è una fotografia portata alla luce da Black durante le sue ricerche. Scattata nel 1925 da Marcellin Flandrin a bordo di un'areo in volo sulla rotta Casablanca-Dakar, mostra dall'alto una serie di impronte sulla sabbia terminanti con la silhouette scura e inconfondibile di un leone maschio. Un'immagine davvero suggestiva e potente, ritraente chi, a testa alta e con fierezza reale, s'incammina solitario verso il proprio ineluttabile destino.